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PARMA, così com'è

Aggiornamento: 10 nov

Alcune delle cose di questa città meritano di essere spiegate

Non basta dire che si è Parmigiani, perché Parma e la sua provincia non sono soltanto un luogo, un posto fisico dove stare, ma sono soprattutto un modo di intendere le cose. E questa terra è tante cose, tutte insieme e tutte diverse. Ma spesso tante cose insieme significano altrettante contraddizioni che non si amalgamano affatto ... però qui riescono sempre a convivere.

Per esempio:

  • abbiamo inverni continentali con la neve e un freddo da ghiacciare il respiro che si alternano a mesi estivi con calure decisamente tropicali;

  • grazie alle brezze marine che scendono dal valico appenninico si stagionano salumi inimitabili come il Prosciutto, ma è anche vero che dalle nebbie tardo-autunnali lungo le rive del fiume Po scaturisce un prodotto che regala un’esperienza gustativa unica come il Culatello;

  • siamo una città d’arte, ma abbiamo anche distretti industriali che, soprattutto nell’agro-alimentare, competono con colossi di livello mondiale, e il nostro territorio è diventato il simbolo di prodotti di eccellenza conosciuti in tutto il mondo.

In nessun altro posto al mondo la gente parla così tanto di quello che mangia, lo racconta, discute e ci litiga, come per esempio sul ripieno degli anolini … e guai chiamarli tortellini! La gente ha bisogno di ragionare su quello che mangia perché in questa terra ogni cosa, anche la più concreta come il cibo (e perfino il maiale ...) diventano filosofia. Una filosofia, però, che non resta un’idea campata per aria, per pochi intellettuali: qui le cose più importanti sono quelle che si mangiano. Se in tutti i posti del mondo i cervelli si incontrano e dialogano nei salotti o nelle accademie, da noi invece lo si fa preferibilmente “con le gambe sotto un tavolo”, perché i Parmigiani sono fatti così, gente che senza cibo proprio non ci sa stare.


I GALLEGGIANTI (ovvero, gli anolini in brodo)

Solo a parlarne viene l’acquolina in bocca: gli anolini, da sempre, sono uno dei piatti tipici di Parma e Provincia, e la loro preparazione nelle grandi occasioni di feste in famiglia (in particolare nel periodo di Natale e Pasqua) è un must che non può mancare sulle tavole dei Parmigiani. E, attenzione, anche il nome conta: a Parma, e solo a Parma, si chiamano anolini a cominciare da quando il ripieno era di agnello (agnulus in Latino), mentre i cappelletti sono reggiani, e i tortellini sono romagnoli.

I galleggianti, come sono familiarmente chiamati, vengono serviti in un caldo brodo di cappone che se fa gli occhi (cioè se si intravvedono chiazze di grasso) è ancora più buono. A vederli galleggiare nel brodo fumante, gli anolini sembrano tutti uguali, ma non è così, ed ogni luogo custodisce la sua versione: c’è chi mette la noce moscata e chi invece preferisce evitarla, c’è chi nel brodo mette soltanto il cappone e chi invece preferisce la gallina, oppure chi non può fare a meno del cosiddetto brodo di terza. Ma di fatto, la differenza più rilevante sta nella preparazione del ripieno degli anolini: con il sugo di uno stracotto di carne, oppure di magro (ovvero, con un ripieno fatto solo con Parmigiano-Reggiano, pangrattato e uova). In montagna ed in città il ripieno degli anolini è fatto con stracotto di manzo, pane grattugiato, noce moscata, uova e Parmigiano-Reggiano. Nella Bassa Parmense, invece, è più frequente il ripieno cosiddetto di magro, o povero, cioè fatto soltanto con Parmigiano, uova e pane grattugiato.

COME TI CUCINO LA VECCHIA

State tranquilli, «cucinare la vecchia» non sottintende un manuale di facili consigli su come sbarazzarsi di una signora non più giovane e magari anche un poco antipatica!...

La Vecchia (così chiamata forse perché la ricetta si perde in tempi lontani) è un piatto che da sempre ha riempito col suo profumo le nostre tavole. Ha bisogno di essere cucinata molto lentamente e, una volta preparati gli ingredienti e messi a cuocere, basterà abbassare il fuoco, controllare ogni tanto e aggiungere un po’ di brodo quando è necessario, per non fare attaccare il fondo della padella.

Dunque, si parte da una grande padella: si fa un battuto di aglio, cipolla, sedano, prezzemolo; si tagliano a fette una cipolla, tre pomodori maturi, due peperoni verdi e due patate. Si fanno scaldare olio e burro, si aggiungono il battuto e le verdure; si lascia soffriggere un poco, quindi si abbassa la fiamma e si fa cuocere lentamente, aggiungendo un po’ di brodo se necessario.

Se ci si ferma qui, la Vecchia risulta un buon contorno. Diventa invece un piatto completo se si dispone di carne lessa fredda (magari gli avanzi di un bollito fatto in precedenza) che, tagliata a fette, va aggiunta alle verdure. Alcuni, in questa città ippofaga, utilizzano la carne macinata di cavallo (al cavāl pïst) e anche questa versione risulta pregevole. Ma nulla vale l’aggiunta finale di patate fritte: tagliate a spicchi, rese croccanti dalla frittura nello strutto (… oggi si usa l’olio!), con aglio e rosmarino, aggiunte alla Vecchia due minuti prima di servire, trasformano il piatto in una meraviglia.

LA TORTA FRITTA

Chi non è di Parma, quando sente parlare di Torta fritta, pensa immediatamente a qualcosa di dolce. Invece si tratta di un semplice e gustoso piatto salato che è la versione parmigiana di un impasto a base di strutto, farina e acqua, tirato a strisce, tagliato a losanghe, poi fritte in olio bollente (un tempo era d’obbligo l’uso dello strutto). Così i pezzi si trasformano in cuscinetti rigonfi di aria, gioia del palato di grandi e piccoli, con la loro consistenza morbida dentro e croccante fuori, tanto che la crosticina deve sfaldarsi. È lo street food nostrano per eccellenza, tanto che non può mancare in qualsiasi fiera, sagra paesana o manifestazione di piazza.

E allora perché si chiama Torta fritta? Secondo alcune fonti, la risposta risalirebbe all’epoca longobarda, quando sono state descritte per la prima volta delle frittelle di vento e nuvole fritte che – servite caldissime – venivano spolverate di zucchero e mangiate a fine pasto, come dolce (da qui appunto la definizione di torta). Con il tempo però si scoprì che questi pezzi di sfoglia potevano essere degustati anche senza zucchero, anzi, la loro massima esaltazione era l’abbinamento con i prodotti del territorio, in particolare i salumi nostrani come Prosciutto, Coppa, Salame, Pancetta e Spalla cruda o cotta (non il Culatello, un prodotto sublime che deve essere mangiato semplicemente con un pezzo di pane, magari la classica micca parmigiana).

Se all’apparenza può sembrare una ricetta banale, nella realtà non è così vero: bisogna infatti raggiungere un perfetto equilibrio tra la composizione della pasta, il suo spessore e la temperatura dello strutto durante la frittura. Ecco perché la migliore ricetta della Torta fritta è sempre quella della mamma o della nonna, tramandata di generazione in generazione in ogni famiglia del parmense. 

Con alcune piccole varianti nella ricetta dell’impasto, questo sfizioso alimento è diffuso in tutta la bassa pianura emiliana e conosciuto con altri nomi: a Modena e Reggio Emilia è lo gnocco fritto, a Bologna la crescentina, a Ferrara il pinzino, a Piacenza il chisulén.

LE SCARPETTE DI SANT’ILARIO

Si tratta di biscotti glassati che si preparano esclusivamente per festeggiare Sant’Ilario, patrono della città di Parma. La forma è inconfondibile, il sapore anche: dunque, non c’è 13 gennaio che non si rispetti senza le Scarpette di Sant’Ilario, ma la tradizione vuole che innanzitutto si celebri la messa in duomo, e poi si assista alla cerimonia di consegna del Premio Sant'Ilario (la Scarpetta d’Oro) da parte dell’amministrazione comunale. È un attestato di Civica Benemerenza conferito a persone, organizzazioni o enti che con la propria attività hanno contribuito a rendere migliore la vita dei singoli e della comunità, o ad elevare il prestigio della città, distinguendosi nel campo delle arti, delle scienze, dello sport, dell'industria o della solidarietà.

La figura che ha ispirato questi dolcetti è realmente esistita: si tratta del Vescovo Ilario di Poitiers, dottore della Chiesa e considerato uno dei vescovi più influenti del suo tempo. Ilario nacque a Poitiers nel 315 d.C. da un’agiata famiglia pagana, ebbe una solida istruzione letteraria e filosofica e fin da giovane fu animato dal desiderio di conoscere il destino dell’uomo, soprattutto al di là della morte. Ciò lo portò alla ricerca della verità e ad avvicinarsi alle Sacre Scritture. All’età di trent’anni si convertì al Cristianesimo e si fece battezzare. Alla morte del Vescovo di Poitiers gli venne conferito il ruolo di suo successore e divenne uno strenuo oppositore del nascente arianesimo. Il 13 gennaio del 367 avvenne il miracolo: narra la leggenda che, nel giorno del trapasso del Vescovo Ilario, una luce incredibilmente vivida permeò la stanza del Vescovo morente, e probabilmente fu questa l’origine del mito del Santo.

A Parma Sant’Ilario fece tappa in uno dei suoi numerosi viaggi: leggenda vuole che indossasse un paio di scarpe particolarmente logore e un calzolaio, mosso da pietà, vedendo le condizioni di quel pellegrino a lui sconosciuto, gli confezionò un paio di scarpe nuove. Il giorno seguente, nello stesso punto in cui erano state lasciate le vecchie e logore scarpe, l’uomo trovò due scarpette d’oro.

LA ROZÄDA ÄD SAN ZVĀN (Rugiada di San Giovanni)

Nella notte del 23 giugno a Parma e provincia è tradizione festeggiare San Giovanni e il solstizio d’estate con tortellate all’aperto, organizzate da ristoranti e trattorie, ma anche da gruppi di amici e nelle singole famiglie. Queste tortellate sono un pretesto per stare in compagnia con «i piedi sotto la tavola» e per cogliere i benefici della rozäda äd San Zvān. Il menù d’obbligo per questa serata è a base di Tortelli d’erbetta a volontà, magari accompagnati da Lambrusco fresco o Malvasia.

La tradizione vuole che i Tortelli d’erbetta (una pasta ripiena con un impasto a base di bietoline, ricotta, uova e Parmigiano), una volta cotti in acqua salata, siano serviti «foghè in-t-al butér e sughè col formaj», gergo dialettale che letteralmente significa «affogati nel burro e asciugati col formaggio».

La rugiada della notte di San Giovanni è ritenuta benefica e miracolosa: questa credenza, antichissima, è appunto legata alla ricorrenza del solstizio d’estate ed è un mischiarsi di rituali pagani e cristiani, e tortelli+rugiada costituisce un antico inscindibile binomio. Per questo la tradizione vuole che si faccia tardi, e si oltrepassi la mezzanotte: per ricevere quella misteriosa benefica rugiada, considerata un balsamo prodigioso che allontana i malanni del corpo, è un portafortuna, e può divenire anche un ottimo filtro d’amore.

La rugiada bagna le erbe e i frutti, migliorandone le qualità curative e, dunque, la tradizione vuole che durante questa notte si raccolgano le noci non ancora mature per preparare il nocino, liquore tipico di Parma e provincia la cui ricetta, con numerose varianti, si tramanda nelle famiglie di generazione in generazione. Una notte magica in cui divinazione e cultura si fondono a creare una tradizione millenaria, ancora oggi rispettata e festeggiata dai Parmigiani.

IL CULATELLO

Piccolo, altezzoso (anche per via del suo prezzo che attualmente si aggira intorno a 80 € al chilo), meno noto del monumentale Prosciutto di Parma (il cugino con l’osso, originario della zona collinare), il Culatello è un salume ancorato alla sua terra d’origine: la Bassa Padana.

Fra tutte le delizie dell’arte norcina del Parmense, è indubbio che la palma del primato per rarità e prelibatezza spetta al Culatello («cosa rara et squisitissima» lo descriveva la Famiglia Sforza quando ne riceveva qualcuno in omaggio). Il segreto di questa eccellenza gastronomica si dice sia racchiuso nella zona di produzione (i Comuni di Zibello, Polesine Parmense, Busseto, Soragna, Roccabianca, San Secondo Parmense, Sissa-Trecasali e Colorno), situata lungo la riva destra del Po, dove la lunga stagionatura in cantina (almeno 18 mesi) è favorita da quello speciale microclima che va dalle leggere brume alle fitte nebbie autunnali, al freddo intenso invernale, fino all’afa delle estati caldo-umide.

Il Culatello deve il suo nome alla parte utilizzata nella sua preparazione (la culatta), cioè, la parte muscolare della coscia posteriore del maiale da cui vengono rimossi osso e cotenna che, invece, sono conservati nella preparazione del Prosciutto. Il processo di produzione di questo regale salume non è cambiato dai tempi del Medioevo, quindi non prevede l’utilizzo di tecniche e macchinari moderni, ma necessita soltanto di abili gesti delle sapienti mani del norcino, tramandati nei secoli.

Anche il momento del consumo richiede un rito di preparazione che, se eseguito con la necessaria dovizia, contribuisce ad accrescerne l’aroma e la fragranza.

AL CAVĀL PÏST (IL PESTO DI CAVALLO): A QUALCUNO PIACE CRUDO

Al cavāl pïst (il cavallo pesto) è uno dei cibi più tipici della cucina tradizionale parmigiana, in passato un po’ snobbato dalle classi più agiate, ma molto apprezzato dal popolo più semplice. Tuttora, soprattutto nei giorni di mercoledì e sabato, davanti alle macellerie equine si formano code di Parmigiani che aspettano il proprio turno per comprare questo tipo di carne, un alimento che agli occhi di uno straniero spesso risulta addirittura abominevole. Si tratta, infatti, di carne di cavallo – che peraltro è un animale d’affezione anche da queste parti! – tritata, mangiata cruda e condita soltanto con olio e limone (ma c’è chi la preferisce leggermente speziata, quindi condita con un poco di aglio, pepe e prezzemolo). I Parmigiani amano talmente al cavāl pïst che usano mangiarlo come piatto unico a pranzo, o in preparazioni tipiche come la vecchia descritta in pagine precedenti. Per i giovani della città, invece, il panino farcito con abbondante pesto di cavallo risulta un eccellente street food: famosi sono i panini preparati da alcune paninoteche storiche della città che da generazioni sono luoghi di incontro, di tradizioni, di amicizia e di ricordi, magari semplicemente appoggiati al bancone (se non addirittura appoggiati al muro sul marciapiede!), e circondati dalla simpatia e goliardia dei proprietari.

A Parma la prima macelleria equina è stata aperta nel 1881, nonostante il consumo fosse autorizzato dal Comune già dal 1873. Se ne vede ancora chiaramente la posizione aggirandosi nei paraggi del Parco Ducale, in Strada Farnese, dove si nota una porta sormontata dalla scultura di una testa di cavallo. Recentemente è stata riavviata l’attività dopo lunghi anni di chiusura e, come vuole la tradizione, la posizione della beccheria di carne equina è segnalata da due leggeri teli bianchi che dondolano mossi dall’aria ai lati dell’ingresso.

VIOLETTA DI PARMA: UNA STORIA DIVENUTA LEGGENDA

Questo minuscolo fiore (nome scientifico Viola odorata pallida plena), etereo e delizioso, simbolo di gentilezza e affetto, ma anche capace di veicolare enigmatici messaggi politici, si lega indissolubilmente al nome di Parma fin dai tempi di Maria Luigia d’Austria, seconda moglie dell’imperatore Napoleone Bonaparte. E la storia della Violetta nasce proprio con Napoleone: mazzetti di violette appuntanti sul petto venivano utilizzati dai bonapartisti come segno distintivo durante gli anni del primo esilio dell'imperatore in decadenza.

La Duchessa di Parma, amante dei fiori in generale e ormai lontana dal consorte, spogliò la Violetta di qualsiasi significato politico e lo assunse come emblema di purezza e umiltà, utilizzandolo sia come decoro di palazzo sia sotto forma di fragranza profumata. Addirittura, non appena arrivata a Parma si occupò personalmente della coltivazione di questo particolare fiore, e volle che fossero del suo colore le divise di corte, gli addobbi della sua dimora, e i simboli del Ducato. Infine, fu sempre la Duchessa ad incoraggiare e sostenere le ricerche dei frati francescani del convento dell’Annunciata che, dopo un lungo e paziente lavoro, riuscirono ad ottenere dalla Viola odorata pallida plena e dalle sue foglie un’essenza del tutto uguale a quella del fiore. La formula alchemica per la preparazione dell’essenza fu segretamente custodita dai monaci fino al 1870, quando la svelarono al futuro Cavaliere del Lavoro Ludovico Borsari. Questi ebbe per primo la coraggiosa idea di tentare una produzione per un pubblico più vasto: nacque così il profumo Violetta di Parma e l’iniziativa trasformò la ditta Borsari nella prima grande industria italiana di profumi diventata nota in tutto il mondo.

Maria Luigia seppe conquistare l’affetto, le simpatie e la fiducia dei suoi sudditi governando in pace e prosperità: in memoria della Duchessa tanto amata, ogni anno un gruppo di Parmigiani si reca sulla sua tomba nella chiesa dei Cappuccini di Vienna per deporre un mazzetto di Violette di Parma.

QUANTI GRILLI NEL GIARDINO!

Chi è nato a Parma, da bambino almeno una volta è andato su un grillo del Giardino (il

Parco Ducale): non si tratta dell’insetto salterino che tutti conosciamo, ma di un particolare triciclo in ferro (munito di volante e fatto muovere con la spinta alternata delle gambe su una leva monopedale) realizzato nel 1951 grazie all’intuito di un meccanico della provincia di Reggio Emilia. Negli anni Cinquanta la produzione di questo piccolo velocipede ebbe un boom planetario, con ordinazioni da parte di Parchi giochi situati persino in Paesi Sudamericani.

Ancora oggi il grillo è occasione di divertimento per frotte di ragazzini che gareggiano lanciati in ansimanti sfide di velocità, sfrecciando attraverso i vialetti bianchi e polverosi del Parco Ducale. Infatti, questo polmone verde – sicuramente il più bello e il più amato parco cittadino, tanto che i Parmigiani lo chiamano affettuosamente e semplicemente il Giardino – è la location tradizionale per questi famosi grilli.

Il Giardino è un raro esempio di parco principesco (sorto a metà del ‘500 per volere dell’allora Duca di Parma Ottavio Farnese) aperto al pubblico dal 1800 per espressa volontà della Duchessa Maria Luigia d’Austria. Al suo interno si trova il Palazzo Ducale costruito a partire dal 1561 per ordine del medesimo duca Farnese, e fu sede della corte ducale fino alla seconda metà del Seicento.

L’ANGIOLÉN DAL DŌM (L'ANGELO DEL DUOMO)

L’Angiolén dal Dōm ("L'Angelo del Duomo") sta alla città di Parma quanto la Madunina sta alla città di Milano. L’opera fu realizzata nel 1293, in lastre battute di rame dorato, in occasione dell’inaugurazione della guglia della Torre Campanaria del Duomo.

Chi guarda dal basso della piazza, nelle giornate di bel tempo, vede l’Angiolén scintillare sotto il sole. L’Angelo è inoltre montato su un perno rotante che gli permette di girare su sé stesso a seconda della direzione del vento. Quindi, di tanto in tanto, può capitare che qualche passante si domandi perché mai l’Angiolén stia dando le spalle alla piazza, quasi fosse offeso.

I Parmigiani, abituati a questa presenza costante che dalla cima della guglia sembra osservare l’andirivieni della gente in piazza Duomo e per le vie circostanti, lo conoscono semplicemente come l’Angiolén, ma le sembianze della statua sono quelle dell’Arcangelo Raffaele: l’Angelo protettore dei malati, dei ciechi, dei viaggiatori e degli sposi.

Nei secoli questa creatura alata rassicurante è divenuta il simbolo della città, una sorta di guardiano, di nume tutelare che con la mano destra sostiene l'asta di una croce, mentre con l’altra sorregge un lembo del suo mantello. E, attraverso i secoli, ne ha viste e sentite davvero di tutti i colori, ha vegliato sulla città avvertendone gioie e dolori, miserie e ricchezze, proclami e pettegolezzi, urla e sussurri, parole d’amore oppure urla di odio e di lotta.

Nella metà degli anni Quaranta del secolo scorso, provata dall’età e aggredita dagli agenti atmosferici, la scultura originaria fu restaurata, e in quella circostanza si pensò di ricavare una copia dell’originale, quella che dal 1962 ancora oggi svetta sul campanile del Duomo. L’opera originale è attualmente esposta nel Museo Diocesano, a lato del Palazzo Vescovile che si affaccia sulla stessa Piazza Duomo.

LA PICCIONAIA: LÀ DOVE RUGGISCONO GLI AMMAZZATENORI

Il pianeta loggione del Teatro Regio (familiarmente detto la piccionaia, in quanto si tratta dell’ultima fila di palchi) è un mondo piccolo e nello stesso tempo grande, popolato da umanità varia che testimonia come l’opera lirica riesca a mettere i suoi appassionati allo stesso livello: professionisti, operai, artigiani, studenti, giovani, anziani, uomini, donne, credenti, atei, sinistrorsi, destrorsi e centristi. Tutti appollaiati in quelle anguste piccionaie per la devota audizione delle ben conosciute note.  Anche per gli altri Teatri italiani il loggione rappresenta un mondo molto particolare e importante, ma al Regio di Parma diventa una temutissima fossa dei leoni per tenori, soprani e baritoni che si cimentano in questo tempio del melodramma.

In un silenzio quasi tombale, e in un atteggiamento quasi mistico, con orecchi che al confronto i radar della Nasa sono una bazzecola, i loggionisti ascoltano, gustano, soffrono, gioiscono, dissentono, o applaudono (talvolta rumoreggiano o addirittura fischiano) dalla prima all’ultima nota di un’opera. E questo perché loggionista non lo si diventa per caso, ma si nasce con quel particolare amore per l’opera, magari ereditato da un parente.

Fatto sta che i personaggi che popolano il loggione, esprimendosi in dialetto parmigiano come loro lingua ufficiale – arricchito di straordinarie battute – rappresentano la vera anima del Teatro Regio. Tra loro autentici personaggi che sembrano usciti da un film di Pupi Avati: estrosi, anomali, affascinanti, spoccchiosi ed unici nel loro genere.

Forse è l'ultima Parma che ci ricorda i fasti e l’autenticità della città d’un tempo in cui tutti si conoscevano e tutti sapevano tutto di tutti.

Certamente il trascorrere del tempo ha modificato anche questo ambiente, ma dei nostri loggionisti ne andiamo ancora fieri, poiché quegli uomini e quelle donne che ascoltano in religioso silenzio l’opera senza sfoggiare abiti e toilette di lusso, sono autentici intenditori. E, se qualche nota inciampa uscendo dalla buca dell’orchestra o qualche acuto si smorza tra gli stucchi dorati ed i velluti purpurei, loro se ne accorgono e ne soffrono, perché la musica la amano davvero, e per questo meritano rispetto. 

PARMA = PICCOLA PARIGI?

… si dice che nella botte piccola c‘è il vino buono, e Parma, nel suo piccolo …


... In fondo, la sua rive gauche ce l’ha: è l’Oltretorrente, il quartiere della bohème cittadina. Situato «di là dell'acqua», come dicono i Parmigiani (cioè al di là del torrente Parma rispetto al centro della città),  questa parte è detta anche Parma Vecchia, pur non essendo antica quanto il nucleo di origine romana situato alla destra del torrente Parma («al di qua dell'acqua»). Nelle sue abitazioni, spesso modeste ma pittoresche, l'Oltretorrente ha da sempre ospitato gli abitanti più lontani e diversi, e anche ai giorni nostri è il quartiere cittadino con la maggiore concentrazione di immigrati stranieri.

Non a caso l’edificio simbolo della storia ospedaliera della città, l’Ospedale Vecchio, è posto in Oltretorrente, lungo il più importante asse urbano, ossia il tratto cittadino della via Emilia (attuale via D’Azeglio). È stato l’ospedale cittadino dai primi anni del ‘500 fino al 1926, molto amato dalla popolazione per i servizi umanitari che ha dispensato nei secoli.

Questa vocazione all'ospitalità ha fatto di Parma Vecchia la parte più colorita, sanguigna e generosa della città. Nei suoi borghi echeggiano ancora le gesta di questa gente nella lotta di resistenza antifascista culminata nelle barricate del 1922, così come è ancora vivida la figura del Venerabile Padre Lino Maupas, un amatissimo frate francescano di fine '800 (la sua biografia è riportata in un'altra pagina di questo blog) vissuto presso il Convento annesso alla Chiesa della SS. Annunciata che i Parmigiani chiamano il Duomo dell’Oltretorrente.

.. Possiamo dire che Parma ha trovato il suo Louvre nel polo museale del Palazzo della Pilotta, simbolo del potere ducale dei Farnese e successivamente trasformato in complesso monumentale che comprende la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese, il Museo Archeologico, e la Biblioteca Palatina, i cui 700.000 libri costituiscono una delle più importanti collezioni al mondo di manoscritti ebraici. Questi tesori artistici e storici si aggiungono a capolavori di artisti del calibro di Antelami, Correggio e Parmigianino dislocati in altri luoghi di interesse: Duomo, Battistero, Camera della Badessa, Abbazia di San Giovanni Evangelista, museo Diocesano.

... Il Teatro Regio è il teatro dell’opera della città di Parma ed è considerato uno tra i più importanti teatri di tradizione operistica in Italia, sebbene non sia così internazionalmente conosciuto come La Scala di Milano o La Fenice di Venezia. Fu la Duchessa Maria Luigia d’Austria, sostenitrice della grande tradizione musicale della città, a decidere l’avvio dei lavori per la costruzione di un nuovo teatro (fino ad allora era disponibile soltanto il Teatro Farnese, ritenuto troppo piccolo e ormai obsoleto) che iniziò nel 1821 e si concluse otto anni dopo.

Altri due grandi poli d’attrazione della città di Parma sono:

(a) la Casa della Musica in Palazzo Cusani, uno spazio multimediale che racconta quattro secoli di storia del teatro d’opera italiano cui si associano la Casa del Suono nell’ex-chiesa di Santa Elisabetta che si affaccia sulla medesima piazza della Casa della Musica e la casa-museo di Arturo Toscanini dove il 25 marzo 1867 nacque il celebre Direttore d’orchestra, da due genitori amanti della musica classica e politicamente vicini alle idee garibaldine del tempo.

(b) Il recupero e riconversione dell’area industriale dismessa in cui sorgevano l’antico pastificio Barilla e lo storico zuccherificio Eridania, con la nascita di un vasto spazio nel quale predomina l’Auditorium Paganini, una struttura di grande pregio estetico e funzionale nata dal progetto di recupero del vecchio zuccherificio ad opera dell’architetto Renzo Piano.

... Appena fuori dal centro storico di Parma, proprio di fronte allo Stadio Tardini e al termine dello Stradone Martiri della Libertà, il viale alberato soprannominato dai Parmigiani semplicemente lo Stradone, c’è una piccola costruzione di forma neoclassica che porta il nome del suo ideatore, l’architetto francese Ennemond-Alexandre Petitot: il Casinetto Petitot. Questa piccola palazzina può essere considerata uno dei primi caffè d’Italia, nel senso di luogo pubblico deputato a ritrovo e conversazione, casa della musica e piccola bottega. Il Casinetto Petitot, quindi, favorì la socializzazione dei ricchi borghesi, dei nobili, dei dignitari di corte e degli intellettuali dell'epoca, proprio nel momento in cui in Europa iniziavano a diffondersi i primi ideali illuministici.

Lo Stradone e il Casinetto Petitot vennero inaugurati il 24 giugno 1766, durante la notte di San Giovanni.

Ai giorni nostri lo Stradone è una via trafficatissima e il Casinetto Petitot è ora una sorta di spartitraffico naturale: un’immagine molto diversa da quella che avremmo ammirato qualche secolo fa. Eppure chiudendo gli occhi possiamo ancora provare ad immaginare il cigolio delle ruote delle carrozze, il fruscio delle vesti e le risate provenienti dalla terrazza del Casinetto: una suggestione che riporta alla petite capitale cui ambiva Du Tillot, il potente primo ministro del duca Filippo di Borbone.




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